domenica 12 luglio 2009

Lo scorpione.



            Tutti e otto d’accordo, quanti eravamo, avevamo parcheggiato il furgone fuori dalle meravigliose mura di cinta della città, nei pressi di uno dei varchi che immettevano all’interno di Marrakesh, non immaginandosi affatto che ci sarebbero volute ben sette ore, una volta visitata la medina e tutta la sterminata città, per ritrovare la stessa porta e quindi il furgone. Su una piccola ferita ad un piede che mi ero procurato con la fibbia di un sandalo, si andavano continuamente a posare delle mosche antipatiche, interessate probabilmente alle piccole croste che si erano formate sopra la pelle, a volte in gruppi di tre o quattro alla volta, e le ritrovavo, ogni volta che la mia attenzione era attirata da altro, concentrate in quel pizzicarmi, in quel succhiare le croste. Rientrammo che era ormai buio in quello che chiamavano camping, appena fuori città, di fatto composto da due docce fredde e due cessi, al centro di una spianata di polvere e basta. Con i fari del nostro furgone, rientrando verso le tende che avevamo piantato al mattino, illuminammo qualcosa di piccolo che correva sopra la polvere e andava a infilarsi in dei piccoli buchi dentro la sabbia: scorpioni dal corpo giallastro, grandi almeno dieci centimetri, irritati della nostra presenza, con l’artiglio su in alto, pronto a colpire. Ne presi una vivo e lo chiusi dentro a un grosso barattolo senza sapere di preciso che farci. La Rita non era contenta. Avevamo litigato in tutti i modi possibili, fin da quando eravamo partiti, tre settimane più addietro, e lei, arrivati a quel punto, piuttosto che dirmi di  nuovo cos’era che non sopportava di me, preferiva evitarmi. Allo scorpione, strappando un’ala con l’unghia, detti qualcuna di quelle antipatiche mosche che mi infastidivano, e lui le pinzava con le sue chele, trafiggendole lentamente con il suo pungiglione, succhiandone in seguito le parti più molli. Con la Rita non filava in nessuna maniera il nostro rapporto iniziato da un anno, ed io non riuscivo a capirne il perché. I giorni seguenti traversammo l’Atlante, poi ci spingemmo più a sud. In capo a tre o quattro giorni avevamo raggiunto il confine, che non era segnato da niente. Una colonna militare di soldati che dal Marocco entrava dentro la Mauritania, ci disse di evitare di spingerci oltre: sotto Tam Tam, spiegarono, era tutto veramente pericoloso; i sarhawi erano gente che non si faceva alcun scupolo, era meglio evitare problemi, ci dissero. Visitammo un’oasi di gente un po’ ambigua, in barba a quello che ci avevano detto quei militari, ma nel giro di poco annusammo realmente il pericolo; seguimmo il consiglio che ci avevano dato i soldati, e risalimmo più a nord, rientrando in Marocco, lungo la costa, e pieni di sudore e di polvere come eravamo, ci concedemmo un bagno liberatorio dentro all’oceano, al bordo di una spiaggia larga centinaia di metri, dove non c’era nessuno, e le onde si abbattevano enormi come cascate. Io e la Rita nell’acqua ci ritrovammo abbracciati, non sapevamo neppure perché, forse per un sentimento latente al quale non sapevamo dar seguito, poi, quando uscimmo dall’acqua, arrivò un marocchino solo per dirci che i pescecani, poco più al largo, usualmente facevano stragi. Quando rientrammo in Italia lo scorpione era sempre dentro al barattolo, fissato dentro al furgone. Con la Rita non sapevamo proprio che dirci, secondo lei ogni mio atteggiamento era legato al mio bisogno di comportarmi da maschio, e già solo per questo negativo e perverso. Dodici anni più tardi, dopo che l’avevo completamente persa di vista, mi confessò la sua latente omosessualità, che ad iniziare da allora, da quel nostro viaggio in Marocco, aveva covato dentro di sé, e della quale io non ero neanche riuscito ad avere un sospetto. Arrivai a casa dei miei genitori ancora con lo scorpione dentro al barattolo, alla fine di quel periodo intenso e complesso: mio padre sembrava contento delle mie esperienze e di quel mio viaggio così avventuroso; poi andò sulla spiaggia, riempì di sabbia il barattolo con dentro quello scorpione ancor vivo, e per essere sicuro di tutto, andò al largo con la sua barca, e affondò il barattolo in mare.   

            Bruno Magnolfi


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