Tutti e otto d’accordo, quanti eravamo, avevamo
parcheggiato il furgone fuori dalle meravigliose mura di cinta della città, nei
pressi di uno dei varchi che immettevano all’interno di Marrakesh, non
immaginandosi affatto che ci sarebbero volute ben sette ore, una volta visitata
la medina e tutta la sterminata città, per ritrovare la stessa porta e quindi
il furgone. Su una piccola ferita ad un piede che mi ero procurato con la
fibbia di un sandalo, si andavano continuamente a posare delle mosche
antipatiche, interessate probabilmente alle piccole croste che si erano formate
sopra la pelle, a volte in gruppi di tre o quattro alla volta, e le ritrovavo,
ogni volta che la mia attenzione era attirata da altro, concentrate in quel
pizzicarmi, in quel succhiare le croste. Rientrammo che era ormai buio in
quello che chiamavano camping, appena fuori città, di fatto composto da due
docce fredde e due cessi, al centro di una spianata di polvere e basta. Con i
fari del nostro furgone, rientrando verso le tende che avevamo piantato al
mattino, illuminammo qualcosa di piccolo che correva sopra la polvere e andava
a infilarsi in dei piccoli buchi dentro la sabbia: scorpioni dal corpo
giallastro, grandi almeno dieci centimetri, irritati della nostra presenza, con
l’artiglio su in alto, pronto a colpire. Ne presi una vivo e lo chiusi dentro a
un grosso barattolo senza sapere di preciso che farci. La Rita non era
contenta. Avevamo litigato in tutti i modi possibili, fin da quando eravamo
partiti, tre settimane più addietro, e lei, arrivati a quel punto, piuttosto
che dirmi di nuovo cos’era che non
sopportava di me, preferiva evitarmi. Allo scorpione, strappando un’ala con
l’unghia, detti qualcuna di quelle antipatiche mosche che mi infastidivano, e
lui le pinzava con le sue chele, trafiggendole lentamente con il suo
pungiglione, succhiandone in seguito le parti più molli. Con la Rita non filava
in nessuna maniera il nostro rapporto iniziato da un anno, ed io non riuscivo a
capirne il perché. I giorni seguenti traversammo l’Atlante, poi ci spingemmo
più a sud. In capo a tre o quattro giorni avevamo raggiunto il confine, che non
era segnato da niente. Una colonna militare di soldati che dal Marocco entrava
dentro la Mauritania, ci disse di evitare di spingerci oltre: sotto Tam Tam,
spiegarono, era tutto veramente pericoloso; i sarhawi erano gente che non si
faceva alcun scupolo, era meglio evitare problemi, ci dissero. Visitammo
un’oasi di gente un po’ ambigua, in barba a quello che ci avevano detto quei
militari, ma nel giro di poco annusammo realmente il pericolo; seguimmo il
consiglio che ci avevano dato i soldati, e risalimmo più a nord, rientrando in
Marocco, lungo la costa, e pieni di sudore e di polvere come eravamo, ci
concedemmo un bagno liberatorio dentro all’oceano, al bordo di una spiaggia
larga centinaia di metri, dove non c’era nessuno, e le onde si abbattevano
enormi come cascate. Io e la Rita nell’acqua ci ritrovammo abbracciati, non
sapevamo neppure perché, forse per un sentimento latente al quale non sapevamo
dar seguito, poi, quando uscimmo dall’acqua, arrivò un marocchino solo per
dirci che i pescecani, poco più al largo, usualmente facevano stragi. Quando
rientrammo in Italia lo scorpione era sempre dentro al barattolo, fissato
dentro al furgone. Con la Rita non sapevamo proprio che dirci, secondo lei ogni
mio atteggiamento era legato al mio bisogno di comportarmi da maschio, e già
solo per questo negativo e perverso. Dodici anni più tardi, dopo che l’avevo
completamente persa di vista, mi confessò la sua latente omosessualità, che ad
iniziare da allora, da quel nostro viaggio in Marocco, aveva covato dentro di
sé, e della quale io non ero neanche riuscito ad avere un sospetto. Arrivai a
casa dei miei genitori ancora con lo scorpione dentro al barattolo, alla fine
di quel periodo intenso e complesso: mio padre sembrava contento delle mie
esperienze e di quel mio viaggio così avventuroso; poi andò sulla spiaggia,
riempì di sabbia il barattolo con dentro quello scorpione ancor vivo, e per
essere sicuro di tutto, andò al largo con la sua barca, e affondò il barattolo
in mare.
Bruno Magnolfi
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