Era
tardi, e dentro a quel bar erano rimasti appena in tre o in quattro. Martino e
Maksim, seduti ai de lati di un tavolino di plastica, non avevano voglia di
tornarsene a casa, forse perché il loro alloggio aveva quel senso di sgradevole
e di estraneo che solo poche cose al mondo sanno avere così. Venivano da due
paesi diversi, così era inutile star lì a perdersi in nostalgie senza senso, e
l’unico argomento su cui conversare ogni sera era il lavoro, il maledetto
lavoro, la loro lunga, estenuante, faticosa giornata del loro lavoro. Neanche
il futuro, così incerto ed in mano a una sorte di cui era impossibile prevedere
i capricci, poteva dare materia alle loro parole dietro al bicchiere, così
tutto era condensato attorno al presente, la giornata appena trascorsa, tutt’al
più la precedente, nient’altro. A Martino piaceva indagare su modi e i comportamenti
degli altri operai, e ancor più sulle maniere di quei geometri che dirigevano i
loro lavori in cantiere, spesso senza saperne i segreti; Maksim invece prendeva
tutto per scherzo, cercava sempre il lato più divertente di qualsiasi vicenda,
e parlava con ironia delle cose, dei comportamenti degli altri, delle parole
sfuggite di bocca a qualcuno. Il loro piacere di ogni giornata era tutto
ridotto a quell’ora, da soli com’erano, perché con gli altri era difficile
legare anche dentro al cantiere, e tutti, anche loro, avevano le famiglie
lontane, e per questo ambedue avrebbero prolungato quel tempo della bevuta in
quel bar oltre ogni misura. Però quella sera Martino aveva iniziato dei
discorsi che non erano piaciuti a Maksim. Aveva detto che il loro geometra,
quello che assisteva ai lavori, era un povero sciocco, uno a cui si poteva
raccontargli le storie e lui le prendeva sempre sul serio, che non riusciva mai
ad imporsi col direttore lavori, che si lasciava fregare dagli altri, senza
notare la differenza tra chi era onesto e chi non lo era, e che quando lo
prendevi di punta era il primo ad abbassare lo sguardo. No, su questo lui non
era proprio d’accordo. Il geometra era bravo, li aveva sempre aiutati, certe
volte si era preso i rimbrotti del direttore lavori o dell’ingegnere pur di non
dare la colpa di qualcosa a qualche operaio. Maksim valutava le cose, e vedeva
che il lavoro quasi ogni giorno scorreva senza quella oppressione che a volte
si era sentita con altri assistenti, senza quei momenti sgradevoli di quando
era stato presente il titolare della società a ricordare per tutti che era lui
a firmare gli assegni, che loro erano niente, e se voleva li faceva tornare ai
loro paesi, senza quei privilegi, così li chiamava, senza quella fortuna che la
sua impresa forniva loro ogni mese. No, quel geometra non era come il titolare
della ditta, sempre tirato, nervoso, pronto a dire che se le cose andavano male
la colpa era loro, di quegli operai scansafatiche, che si doveva fare di più.
Lui non diceva così, organizzava le cose e aspettava che ogni lavoratore
esprimesse se stesso nel proprio lavoro, come se ognuno si sentisse una parte
di un insieme di cose che, solidale e amalgamato, riusciva a dare il meglio di
sé solo costituendo una squadra affiatata. Quando poi uscirono assieme dal bar
non erano ancora d’accordo, ognuno continuava a dire le proprie ragioni, anche
se la birra aveva già fatto molto, e quando alla fine Martino disse soltanto:
“ma chi se ne frega di quel geometra stronzo!”, tanto per ridere, anche Maksim
fu d’accordo e si fecero una risata comune. La vita in cantiere alla fine era
la loro, quella di loro operai, e tutti quegli altri, quelli che tenevano in
mano i progetti e gli strumenti per misurare le cose e valutare il loro lavoro,
erano di un’altra materia, stavano tutti dall’altra parte del fosso, i loro
mondi erano separati da un muro, divisi per sempre.
Bruno
Magnolfi
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